Recensione: “Tajabone”, di Salvatore Mereu [2010]

Di “Tajabone”, il nuovo film di Salvatore Mereu, avevo parlato un paio di mesi fa a proposito della sua genesi molto particolare: è nato infatti da un laboratorio che lo stesso regista aveva tenuto in una scuola media della periferia di Cagliari, con la partecipazione di ragazzi più o meno “difficili” (come si dice in questi casi) cercando di introdurli al linguaggio cinematografico. Ebbene, questa esperienza didattica è terminata con la raccolta di storie proposte dagli stessi ragazzi che prendevano spunto – in modo abbastanza diretto – dalla propria stessa esperienza quotidiana. Non solo. Queste storie si sono rivelate talmente originali che Mereu ha deciso di prenderle in mano per dirigerle in prima persona: il risultato, “Tajabone”, è dunque a tutti gli effetti il “suo” nuovo film anche se riflette la molteplicità delle voci che l’hanno generato.

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Il neorealismo all’epoca di “Amici”

Ma entriamo nel merito. La storia è ambientata nella stessa zona della loro scuola, e gli attori sono i ragazzi stessi, che sarebbe fin troppo facile incasellare nei vari stereotipi del “disagio”: c’è il delinquentello (che rimorchia), il suo amico buono e un po’ patetico (che non rimorchia), l’extracomunitario che vive con la madre e nel pomeriggio deve lavorare al mercato per aiutare la famiglia, la cicciotta che si illude per un abboccamento via Facebook, i due Rom che abitano nel campo nomadi e così via. Ed in effetti, all’inizio tutta la nostra distanza (del pubblico, intendo) nei loro confronti non potrebbe essere più grande: non c’è nessuna condiscendenza nell’inquadrarli così acerbi ed egoisti. Tanto per rendere l’idea, il film si apre con tre ragazze che durante una gita scolastica scorrazzano sul treno ridacchiando tra loro di una passeggera perché “è islamica”. Sono vestite come il pubblico di “Amici”, dell’Hollywood di Milano, insomma di quella sorta di uniforme adolescenziale alla D&G che chi è uscito dall’adolescenza (da un pezzo, nel mio caso) è abituato a considerare sprezzantemente.

Ma l’esperienza di “Tajabone” è quella di entrare poco a poco nelle vite di queste persone, seguire le loro vicende e finire per affezionarci a loro. E non c’è un momento nel quale ci accorgiamo che queste persone “ci piacciono”, e che cominciamo ad amarle perché ci ritroviamo gli eterni temi del dramma umano: l’amore, la lotta per la vita, il tradimento, la perdita. Ed è un forte senso di perdita che ci resta alla fine (troppo presto) del film, pari alla consapevolezza di quanto questi ragazzi “disagiati” ci abbiano arricchito nel frattempo. “Tajabone” è il titolo la canzone africana cantata (all’inizio e alla fine) dalla madre del ragazzino nero, ed infatti proprio di questo parla: una madre che va in cerca del figlio perduto. E lo ritrova.

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