Man in the Dark (Don’t Breathe) è un film del 2016 diretto da Fede Álvarez. Tra gli attori principali figurano: Stephen Lang, Jane Levy, Dylan Minnette e Daniel Zovatto.
A fronte di un budget risicato, la pellicola ha incassato circa 153 milioni di dollari in tutto il mondo. Il successo ottenuto, ha spianato la strada alla lavorazione di un sequel, la cui regia è stata affidata al co-sceneggiatore del primo progetto.
Man in the Dark
Rocky è una ragazza che desidera lasciare Detroit e, per realizzare al più presto il proprio sogno, compie dei furti insieme a Money e Alex. L’abitazione di un vecchio e cieco marine, sembra essere il luogo ideale per il prossimo colpo: all’interno infatti, pare sia nascosta una grossa somma di denaro. Considerate le condizioni del padrone di casa, i giovani son convinti che si tratti di una passeggiata, ma l’uomo si dimostrerà ben presto, tutt’altro che sprovveduto.
Detroit e i suoi figli
Sudicia e degradata è la Detroit di Fede Álvarez: un desolante palcoscenico le cui strade s’intrecciano sotto la luce del tramonto. Le crepe dell’asfalto designano dei quartieri malfamati, abitati perlopiù da ladruncoli nelle roulotte e delinquenti alle prime armi. Famiglie in difficoltà economica e abbandonate dalle istituzioni, palazzi pittati e loschi individui della criminalità, popolano i sobborghi maleodoranti di una metropoli fantasma. Tra questi, Rocky, Money e Alex: perfetti rappresentanti di quel tessuto sociale ormai completamente sfilacciato. Sin dalle prime inquadrature, dunque, il cineasta raffigura un contesto realistico e tenebroso, ancor più inquietante delle consuete ambientazioni orrorifiche.
Norman vs Rocky, Money e Alex
Tra uno stabile distrutto e un edificio circondato dalla vegetazione, spunta un’anonima dimora. Al suo interno, il marine vive in compagnia di un rabbioso cane, nero come l’oscurità che avvolge le mura domestiche. La possente muscolatura dell’animale, viaggia di pari passo col fisico scolpito del vecchio, creando un mix di potenza bruta e terrore. È vero, l’uomo è cieco, ma l’addestramento e l’udito sviluppato lo rendono una macchina da guerra. La tana nella quale risiede è colma d’insidie: i corridoi claustrofobici portano a stanze piene di strumenti di morte, mentre i cunicoli disorientano i malcapitati. Le inferiate o le assi di legno sbarrano ogni via d’uscita, tramutando la residenza in una trappola per topi.
Nonostante ciò, è difficile considerare Norman un villain puro: non dimentichiamoci che sono i tre ragazzi a introdursi nell’abitazione del suddetto, nel bel mezzo della notte. E come se non bastasse, uno di loro è armato, pronto a far fuoco al primo segnale di resistenza. La forza della scrittura del progetto, quindi, risiede proprio in questo: lo stravolgimento del concetto di buono e cattivo. I confini che dividono entrambi si fanno labili e solo una cosa diviene importante…sopravvivere.
Man in the dark: lotta senza quartiere
La caccia è aperta. L’affanno dei personaggi detta il ritmo della pellicola e, simultaneamente, la sensazione di oppressione trasuda da ogni frame. Ancor prima degli scontri fisici e delle scie di sangue, sono le sequenze d’inseguimento a dettagliare il lungometraggio: arricchite da un sonoro eccellente e da una cura maniacale per i rumori ambientali. Ciascuno cerca di sfruttare le debolezze dell’altro per avere la meglio: azzeccata in tal senso, la scelta di non raffigurare il militare come imbattibile, ma come essere umano caratterizzato da limiti e qualità. Man in the Dark è horror, thriller, e dramma. L’autore infatti, contamina la caratterizzazione dei protagonisti di sottotesti che ragionano su temi quantomai interessanti, quali paternità, rivalsa sociale e cambio di prospettiva. In sintesi, violenza e dramma psicologico si sviluppano contemporaneamente, conferendo una certa profondità al prodotto.
Non respirare
L’home-invasion di Álvarez, oltre a una lucida sceneggiatura, gode di un impianto tecnico che ben sfrutta la costruzione della tensione. La regia in particolare, contribuisce a rendere l’esperienza filmica più immersiva: la macchina da presa serpeggia tra ingresso e salotto, fra sgabuzzini o corridoi, per poi passare al piano superiore e completare la spirale nella camera da letto dell’”antagonista”. Il piano sequenza dunque, funge a mettere al corrente lo spettatore della planimetria della villetta, cosicché lo stesso disponga d’informazioni visive utili al proprio coinvolgimento. Le eleganti movenze dell’obiettivo però, lasciano spazio a quadri stretti e ravvicinati: difatti, le smorfie di dolore/stupore vengono catturate con prontezza e capacità. Il silenzio rende ancor più angosciante il calvario dei nostri e, assieme al montaggio, dilata i tempi fino allo stremo, per poi sfociare in un climax di disturbante apprensione.
Il mestiere dell’uruguaiano
L’incubo è terreno, non soprannaturale. Il regista lo illustra con gusto e consapevolezza, rifacendosi alla produzione artistica di Hitchcock per la costruzione della suspense e a Fincher per le sfumature thriller (Panic Room). Il progetto però, vive di una forte identità: la solidità formale ben si accompagna a una scrittura intelligente, stratificata quanto basta. Come per La_casa (film_2013), l’inventiva dell’uruguaiano si rifà all’artigianalità della settima arte: effetti palpabili, luci, ombre e pochi attori rinchiusi in una marcescente e labirintica casupola. Gli stratagemmi spaziali prestano il fianco a pillole d’umanità innestate in soggetti moralmente discutibili, sballottando il fruitore da una parte all’altra della barricata. In conclusione, il secondo progetto di Álvarez racconta con taglio diretto la vulnerabilità (fisica e mentale) dell’essere umano, sfruttando sapientemente l’intrattenimento da B movie e la disamina sociale.
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