In un piccolo borgo nelle Ardenne, misteriosamente la primavera si rifiuta di arrivare. La terra diviene sterile, gli animali infertili. Il ciclo naturale sconvolto provoca l’implosione della piccola comunità. Due ragazzi, Alice (Aurélia Poirier) e Thomas (Django Schrevens) cercano, insieme a Pol, apicoltore itinerante con un figlio disabile, la speranza e la felicità proprio dove questa sta morendo.
La quinta stagione
di Federico Cavallini
Fotograficamente potentissimo e sobrio allo stesso tempo, la scelta di annullare quasi completamente i primi piani è per Peter Brosens e Jessica Woodworth (alla regia), una scelta non stilistica ma concettuale: mostrano la bruttura che l’uomo può generare senza sottolinearla con la “tecnica”; sono gli attori e la storia a tenere le rendini di tutto. Anzi, il drammatico momento del sacrifico purificatore di Pol è sintomatico di questa scelta di stile: un campo fisso lontano, immobile, a cui noi assistiamo atterriti e impotenti.
“La quinta stagione” incornicia quadri di bellezza cristallizzata, con una grammatica visiva documentaristica, e una compostezza formale che non scende a compromessi: si sceglie la camera fissa e il campo lungo come vocabolario, in cui i movimenti di macchina sono quasi inesistenti e i primi piani radi e calibratissimi.
Si parla di ribellione della natura sull’uomo, ma c’è molto di più: la piccola comunità rurale delle Ardenne che sopravvive di agricoltura e baratto non ha le colpe della grande città, vive di una fusione panica con la natura, fatta di tradizione inespugnabile, lavoro umile, credenza popolare tramandata di padre in figlio. Il male non è equo, e arriva a sconvolgere un equilibrio già precario: uomini pieni di pregiudizio, ad un passo dall’abisso dell’odio e della bestialità.
Il film sembra quasi una rappresentazione visiva delle teorie del filosofo René Girard sul capro espiatorio e sul sacrificio che monda i peccati della comunità: la piccola città può convivere pacificamente, ma solo a patto di avere un nemico comune che magnetizzi l’odio che l’uomo produce e con cui contamina tutto, forse anche il terreno. Il forestiero, il menomato (in una parola, il diverso) divengono bersagli facili.
“La quinta stagione” è lento, complesso, ma trascina nel vortice della perfidia umana come pochi altri film (mi viene in mente Onora il padre e la madre).
Dentro ci sono Bosch, Bruegel, con la maestosità dei loro passaggi privi di un centro ordinatore, ci sono i problemi di integrazione e di xenofobia di quella regione, c’è l’estetica nordica, e c’è la speranza di una gioia che si nutre di sé e non dell’esterno, ma destinata a sparire anch’essa.
E’ un film problematico, che divide. Porta avanti un’estetica visiva quasi inedita, con coerenza e eleganza superba, anche a discapito dell’empatia con i personaggi – ai quali vorremmo avvicinarci di più, anche fisicamente.
L’inverno dopo l’inverno, ovvero la quinta stagione, è un momento indefinito di morte, di oscurità e oscurantismo, che mangia il raccolto e i colori, che iniziano splendenti e si spengono in un grigio che ingloba tutto. Un’esperienza filmica rara, da vedere.
Mr Royal: un film interessante…
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