La ballata dell’odio e dell’amore, sempre che non siano la stessa cosa

di Igor Riccelli

Un film sull’amore, sul desiderio e sulla morte. Una metafora della Spagna, paese maledetto e tragico, nel quale l’orrore e l’ironia spesso si confondono.

1937. La Spagna è devastata dalla Guerra Civile. Il pagliaccio di un circo viene interrotto durante il suo spettacolo e arruolato dai repubblicani per combattere l’esercito di Francisco Franco. Imbracciando un machete, stermina un intero plotone di franchisti, finendo in prigione.
1973. Ultimi giorni del regime franchista. Javier, il figlio del clown, vuole seguire le orme del padre ma, avendo vissuto un’adolescenza di tragedie, non può che diventare un “pagliaccio triste”. Assunto in un circo sull’orlo del fallimento, si innamora follemente della trapezista, già fidanzata del pagliaccio allegro, violento e alcolista. Perseguitato dal passato e umiliato, il confine tra realtà e immaginazione, tra rinsavimento e follia si farà sempre più sottile, fino a un’inevitabile distruzione.

In uscita giovedì 8 novembre. Miglior Regia e Miglior Film al Festival di Venezia di due anni fa, la black comedy – più black che comedy – di Alex de la Iglesia è un dramma potente che abbraccia diversi piani, tematici e temporali, sullo sfondo della dittatura franchista. È un film totalmente di marca de la Iglesia: onirico, estremo, grottesco, esagerato nella caratterizzazione dei personaggi, in quell’estetica della violenza che ha coperto i cieli spagnoli durante il regime di Franco, vissuto dal regista come «un sogno lunghissimo, un incubo infinito e senza senso».

La balada triste de trumpeta, come sempre il titolo è tradotto in maniera erronea e didascalica in italiano, non è mai scontato e riesce a tenere lo spettatore avvinto alla folle trama per tutta la durata – 110 minuti circa – della pellicola. Gli attori reggono bene parti non eccessivamente complicate, parzialmente macchiettistiche, ma tutte molto sopra le righe. Il realismo di de la Iglesia non è velato ma esibito smaccatamente, sbattuto in faccia a chi guarda senza alcun filtro, soprattutto nelle sequenze della fuga nella foresta.

Il dualismo contrappuntistico messo in scena dai due clown, che combattono fino alla pazzia per la donna che amano (la trapezista o, se preferite, la Spagna), è lo stesso dei due eserciti – repubblicano e franchista – che, nella barbarie della guerra, finisce per risolversi in un moto centripeto verso quell’unico minimo comun denominatore che è la violenza, rendendo così simili le due opposte fazioni, da non riuscire più a distinguere tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra riso e pianto. Le divisioni manichee lasciano posto a una fangosa zona grigia in cui tutto si sporca di sangue e ruggine, in quella che è da considerarsi la triste eredità spagnola dopo oltre trentacinque anni di oppressione.

La fotografia oscilla dai toni caldi dei momenti onirici e fiabeschi alla Jeunet, a quelli freddissimi dell’ossessione omicida, facendo da sfondo a una sceneggiatura surreale e mai banale. Mentre continua l’opera di dissacrazione del conflitto come sistema di vita e valori, si alternano colori degni dei Fauves ad altri più vicini a Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro – per rimanere in tema Guerra Civile Spagnola e realismo onirico. Tutti questi ingredienti sono mescolati da de la Iglesia con una sagace e pungente ironia, per restituire al pubblico un film forte, folle, visionario, autoriale che non potrà lasciarvi indifferenti. Lo amerete o lo odierete, sempre che i due sentimenti non coincidano…

In ogni caso, andate a vederlo. Vi lascio con una parte significativa dell’intervista al regista: «Ho fatto questo film per esorcizzare un dolore della mia anima che non se ne andrà via facilmente, come una macchia d’olio. Mi lavo i vestiti con i film. […] Io sono due persone, forse di più. Posso diventare un bambino viziato, vile e crudele, che si diverte a fare del male e a pizzicare le guance a quelli più deboli di lui. Ma dentro di me c’è anche una triste donna anziana, consapevole della sua età e della sua ignoranza, ma soprattutto della sua colpevolezza. […] Forse queste due strane creature definiscono il mio film. La loro lotta è la sintesi della mia vita».

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