Penultimo appuntamento con i film in concorso al Sudestival 2014. Oggi parliamo de I corpi estranei di Mirko Locatelli.
I corpi estranei
di Giovanni Rotolo II liceo classico “Galileo Galilei”
Un bambino di un anno malato di cancro e un padre disperato, pugliesi. Decidono di andare al nord in una struttura sanitaria più competente lasciando soli la moglie e i due figli più grandi. In seguito all’intervento del piccolo si verificano diverse complicazioni che spingono il padre sull’orlo del precipizio psicologico, qui iniziano a susseguirsi una serie di rituali comportamentali che scandiscono il tempo e la vita del protagonista, preghiere (pur non essendo un praticante), sigarette e un lavoro a poco prezzo come fruttivendolo. Importante si rileva la conoscenza di un ragazzo tunisino, anche lui testimone di un dolore, che pur rappresentando per Antonio, il protagonista, un corpo estraneo lo costringerà ad una riflessione profonda sui propri limiti. Il film, infatti, non è solo una riflessione sulla malattia ma anche sulla difficile accettazione del diverso.
L’intensa storia raccontata, diventa così un’emblema dell’emigrazione sanitaria, un fenomeno tanto frequente quanto poco conosciuto, attorno al quale spesso si snodano vicende vissute con grande pathos. Nel complesso il film è più che discreto per il soggetto e l’intreccio che convince, peccato per le musiche, quasi completamente assenti, e che visto il contesto sarebbero state fondamentali.
Le domande al regista Mirko Locatelli
Iniziamo dal soggetto del film, di cui sei autore. Ci racconti la genesi? In particolare, una piccola curiosità, come mai un papà in ospedale con il proprio figlio e non una mamma, che si è soliti vedere in questi casi?
Il soggetto e la sceneggiatura sono stati scritti da me e da Giuditta Tarantelli; l’idea nasce proprio da un’immagine rimasta nella sua memoria per molti anni. Vent’anni fa vide in un reparto di radioterapia un uomo con il suo bambino malato, provenivano dal sud e si trovavano in una città del nord per le cure per il bimbo. La colpì molto proprio il fatto che fosse un padre ad accudire il piccolo e a vivere quel calvario che generalmente è a carico delle madri, delle donne.
Era un uomo solo che con la sua corazza proteggeva suo figlio da tutti, dalla malattia, dalle terapie stesse, dagli sguardi dei curiosi, ma al tempo stesso appariva fragile, sperduto, indifeso di fronte a qualcosa di incontrollabile e di nefasto. Da quell’immagine reale è nata poi tutta la storia che è ovviamente inventata: ci ha interessato provare a immaginare come un uomo potesse affrontare una situazione così difficile, avendo anche un carattere poco aperto alle relazioni e agli altri.
Passiamo al cast. Filippo Timi, con il suo modo di fare sempre schivo e riservato, sembra perfettamente a suo agio nel ruolo del protagonista (ha vinto il premio “Jean Carmet” come migliore attore al Festival Premiers Plans d’Angers). Come l’hai scelto e com’è stato lavorare con lui? E cosa mi dici invece dell’altro protagonista Jaouher Brahim?
Mentre scrivevamo il film pensavamo proprio a Timi per interpretare il ruolo di Antonio: doveva essere un corpo molto presente, forte, ingombrante. Con Filippo abbiamo lavorato sugli aspetti più concreti del personaggio: doveva accudire un figlio molto piccolo, pensare ai suoi bisogni primari, paradossalmente escludere il dolore e la malattia dal quotidiano. Antonio cerca di non cedere ma non ha appigli ai quali agganciarsi, i luoghi che frequenta sono di passaggio, gli orizzonti sono limitati e lui fatica ad accettare le mani che gli vengono tese. Abbiamo lavorato sulla difficoltà di comunicare, non solo per un problema di lingue e dialetti, ma per una chiusura e una diffidenza che il personaggio fatica a superare.
Con Jaouher ho lavorato per circa un anno prima delle riprese; lui è cresciuto in Italia e parla perfettamente italiano, abbiamo recuperato la lingua dei suoi padri e le emozioni vere, partendo da un lavoro di introspezione e recupero della memoria.
Com’è andata la lavorazione del film? C’è qualche aneddoto che ti va di raccontare?
Abbiamo avuto tempi di produzione molto limitati, ho voluto concentrarmi su un lavoro che facesse emergere la cifra stilistica che avevo in mente, in bilico tra l’appostamento e il pedinamento, quasi fosse un “impianto” documentaristico. Le emozioni che si percepiscono dalla visione sono tutte vere: la rabbia, la paura, la sofferenza e l’amore erano lì, vissute dagli attori, in quel momento davvero.
Nella tua carriera hai girato tanti documentari e questa è la tua seconda opera di finzione. Come mai prediligi il genere documentario? C’è un pò di documentarismo anche in questo film?
Credo non ci sia differenza tra le fiction e i documentari, entrambi funzionano quando sono pronti a lasciarsi contaminare l’uno dall’altro.
Per concludere uno sguardo al futuro: c’è già un nuovo progetto nel cassetto? Documentario o opera di finzione?
C’è un trattamento pronto per un film ma non so sarà il prossimo progetto sul quale lavoreremo; i luoghi e le persone che incontro aprono a innumerevoli suggestioni, a volte spunti per nuove storie.