Dal 29 Ottobre prossimo arriva al cinema il nuovo film targato Colorado Film che, ufficialmente a partire dalla saga di La peggior settimana della mia vita (2011) e sequel, ha iniziato un filone di film dal tocco leggero, la fotografia sbiadita, senza particolari implicazioni sociali, politiche o simili. Solo storielle, spesso remake di altri film di matrice europea o americana, senza alcuna pretesa se non far ridere. In questo percorso produttivo si colloca quello strano oggetto che risponde al nome di Belli di papà.
Trama
Vincenzo (Diego Abatantuono; Io non ho paura, Happy Family) è un’imprenditore che ha raggiunto il successo a Milano. Dopo la morte della moglie ha deciso di ‘rassicurare’ i figli grazie alla sicurezza economica. Accortosi dei suoi sbagli, finge un crollo finanziario e costringe l’intera famiglia a spostarsi in un paesino del Sud e a ricominciare tutto, trovandosi un lavoro e vivendo insieme.
Trailer del film “Belli di Papà”:
Furberie
In Belli di papà c’è tutto quello che di sbagliato è stato un certo cinema degli ultimi tempi: la voglia di costruire un impianto narrativo partendo da un film originale, dove qui parliamo di Nosotros los Nobles del 2013, un buon lavoro di medio successo con un’idea, quella della crisi, del re-inventarsi, del fuggire dalla metropoli, che ben si addice al nostro paese.
Se non fosse che negli ultimi dieci anni decine e decine di film hanno già raccontato la medesima cosa, non ultimo il sincero Noi e la Giulia di Edoardo Leo. Abbiamo un’insieme di comici variopinti che vanno dal caposaldo Abatantuono al più sobrio Antonio Catania (veterano ormai della Colorado Film), sino alla scoperta di Paolo Virzì Matilde Gioli e il ‘Pampers’ Andrea Pisani. Ingiustificata la presenza dell’ex-cantante e presentatore Francesco Facchinetti, nell’insieme non il male peggiore.
Dalle stelle…
Ciò che più fa male in tutto ciò è invece la regia, oltre gli errori di montaggio e la fotografia patinata: Guido Chiesa, regista attento e ricercatore di un certo tipo di cinema con film come Il Partigiano Johnny (2000) o Lavorare con lentezza (2004), qui raggiunge una commedia molto blanda e fine a sé stessa, seppur alcuni dialoghi funzionano grazie agli interpreti (solito grande Abatantuono, brava Matile Gioli), con una freddezza, un’assenza di ritmo che lo porta a mostrare un lavoro quasi sommesso, lontano dall’anarchia e la sobrietà di racconto tipica dei suoi lavori passati. Chiaro quindi una sua controvoglia nell’impacchettare un lavoro meramente commerciale solo, chissà, per poter domani girare qualcosa in cui crede davvero. Sorti simili accompagnano, volente o nolente, il Marco Ponti adesso in sala con Io che amo solo te.
Ma ha senso non impegnarsi per provare ad innalzare anche di poco la bassa asticella qualitativa di questa casa di produzione, nata insieme al programma televisivo e parte di quel cinema che serve unicamente a spegnere il cervello, proprio anche quando ci sarebbero le basi per una seppur minima riflessione sociologica?