#Venezia74: Non pochi alla proiezione di stamattina di The Shape of Water, decimo film del regista Guillermo del Toro, hanno pensato che forse doveva essere proprio questo il film d’apertura di questa 74esima Mostra del Cinema di Venezia.
The Shape of Water
Se Del Toro ci aveva già abituati a saper fondere il racconto commerciale con un’idea di autore (i due Hellboy), di sapere ‘sfruttare’ il fantasy e il gotico per raccontare dell’uomo e della società in cui vive nel passato e nel presente (non senza errori e passi falsi, questo è certo), solo adesso che giunge alle sua decima regia riesce a fare quel passo che da anni si ci aspettava da lui, tornando alle emozioni e al clima del suo capolavoro (Il labirinto del Fauno, 2006) e portando quei temi e quello stile un passo oltre, ambientando la storia nel 1963 per trovare il coraggio di fare un aperto discorso politico, stavolta senza nascondersi nella guerra civile ispanica o dentro gli antri gotici dell’ermetico Crimson Peak ma raccontando una fiaba fantasy-romantica che cita esplicitamente tanto La Bella e la Bestia quanto Il mostro della laguna nera e che ha molte più affinità col cinema di Tim Burton di quanto non lasci trasparire in apparenza.
Il fantasy stavolta funge da semplice strumento, metafora per lasciare a del Toro la libertà di raccontare liberamente, di denunciare una società (americana) che sembra essere arretrata di cinquant’anni piuttosto che progredire (questo maledetto Trump!), una società rappresentata dall’interpretazione di un Michael Shannon brillante e composto e dimostrando di come, al di là del finale romantico che si lascia guardare, ai reietti, ai freak, ai weird (i protagonisti di questa storia sono una muta, un’omosessuale e un mostro, appunto) tacciati di tale nomina di questa società non resta altro che restare soli e in silenzio, vivere tra di loro e fuggire via, lontano, alla ricerca di una speranza che qui sembra, alla fine delle cose, non poter esistere.
Le due ore di The Shape of Water scorrono dentro, ancora una volta, una costruzione dell’immagine studiata sino al minimo particolare, una fotografia calda ed un rapporto col mostro di turno a tratti inusuale e che mostra, più che in passato, come lo stesso del Toro abbia una tendenza a guardarsi indietro, a rifugiarsi nelle certezze di una fiaba per dare sfogo a tutte le sue paure e le sue voglie. E’ un del Toro libero da restrizioni, che mostra che un’attrice come Sally Hawkins (lo aveva già capito il buon Woody Allen) abbia tutte le sfaccettature e le capacità di gareggiare al pari dei grandi e dona ancora una volta al buon collega-amico Doug Jones le vesti del mostro di turno che altro non è qui che escamotage per sfruttare il genere e ‘renderlo’ al massimo delle sue potenzialità, ossia per un obbiettivo comunicativo sul piano politico, sociale, etico e morale.
E, alla fine delle cose, si lasciano passare le leggerezze che del Toro riconosce nel testo e per cui dona al film i sipari comici che mancavano in passato (e in questo Octavia Spencer risulta un corpo ed un volto perfetto attraverso cui renderli) e dona allo spettatore un racconto sfaccettato ed un fantasy che ha la forza e non ha la paura di essere anche molto altro e di andare molto oltre, cosa che al genere non accadeva veramente da tanto e che ci inorgoglisce per un regista spesso controverso e combattuto che sembra stia ritrovando la strada verso il racconto che gli appartiene di più, trovando il giusto equilibrio tra la classicità e l’attualità, sia sul piano dell’estetica che su quello dei temi e dei contenuti narrati.