Chris (Emile Hirsch) è un giovane spacciatore senza futuro e senza morale, tanto da arrivare a pagare il killer Joe (Matthew McConaughey), di professione sceriffo, per assassinare sua madre ed incassare la sua assicurazione sulla vita. Ad appoggiare il giovane nel suo folle piano Ansel (Thomas Haiden Church), rispettivamente padre ed ex marito bifolco, che desidera godersi i soldi derivanti dall’omicidio con la sua nuova moglie Sharla, dando un futuro anche alla figlia minore Dottie (Juno Temple).
Dopo alcuni anni di silenzio William Friedkin, maestro autore di cult indimenticabili come L’esorcista (1973), Il braccio violento della legge (1971) e Vivere e morire a Los Angeles (1985), torna dietro alla macchina da presa e lo fa con l’incisività che gli ha permesso di rivoluzionare i generi del poliziesco e dell’horror negli anni ’70-’80. Quello che esce dal cilindro è un noir cinico e incisivo, pervaso da un pessimismo esistenziale in salsa pulp, sul modello tarantiniano (soprattutto nella parte finale), e da un’ironia tagliente e sferzante sul modello del cinema coeniano.
L’origine della scintilla è un’opera teatrale del 1993, scritta dal premio pulitzer Tracy Letts, che sposta il peso della bilancia delle componenti filmiche decisamente a favore della sceneggiatura. La parola ha un ruolo preponderante insomma: come quando, in una delle prime sequenze, padre e figlio discutono della liceità o meno dell’omicidio per garantire un futuro alla piccola Dottie, ricordandomi uno dei più significativi dialoghi dello splendido The rope – Nodo alla gola (1948) di Hitchcock.
Il fulcro del film è l’innocenza, quella della giovane sorella minore interpretata egregiamente da Juno Temple, destinata a essere corrotta, sporcata, violentata da una società americana del “tutti contro tutti, della violenza a ogni costo” (ricordate le parole di Mickey Rourke nel Sin City di Rodriguez?). L’ambiente è quello di un Texas caldo e provinciale, in cui il sogno a stelle strisce è una realtà lontana, quasi inavvicinabile; in cui gli uomini non fanno altro che guardare Nascar e trash tv – non a caso Killer Joe in una delle sequenze finali distruggerà il televisore di Ansel che, nonostante veda la sua vita in pericolo, non riuscirà a scollare gli occhi dal piccolo schermo; una società in cui un padre è disposto a cedere la sua figlia tredicenne come caparra, per garantire il pagamento dell’omicidio di sua madre.
Friedkin indaga le sfumature grigie della personalità umana, evita di tracciarne la silhouette perché «il confine tra bene e male è molto sottile e la malvagità è presente potenzialmente in ciascuno di noi», come afferma lo stesso regista in un’intervista. Il manicheismo non è certamente la cifra di questa pellicola: nel mondo di Killer Joe non esistono eroi, solo tante vittime dell’indigenza – non solo economica – della disperazione, della violenza fisica, psicologica e mai taumaturgica, dell’assenza di umanità. Significativo, d’altronde, che il ruolo del sicario a pagamento sia affidato a uno che di mestiere fa lo sceriffo e che dovrebbe quindi garantire l’incolumità e la sicurezza a tutta la comunità. Un abbandono da parte di chi dovrebbe proteggerci? Sicuramente, ma sarebbe limitativo ridurre quest’opera a mera denuncia.
La confezione è pregevole, esteticamente mirabile, il senso straniante rimane appannaggio della soggettività di ciascuno di noi. Due sole le pecche della pellicola: una caratterizzazione eccessivamente macchiettistica del personaggio di Killer Joe e un finale (senza spoleirare nulla) che strizza troppo l’occhio allo spettatore, virando bruscamente su un registro tarantiniano violento – da Bastardi senza gloria, per intenderci. È un Friedkin che guarda al passato più che al futuro, ma lo fa con eleganza – se così possiamo definire la sublimazione dell’estetica della violenza – dirigendo alcune sequenze che rimarranno nell’immaginario cinematografico collettivo: una su tutte, il rapporto orale simulato con un’ala di pollo fritto a cui Killer Joe costringe la fedifraga Sharla. Molti altri i particolari interessanti: l’accendino usato freneticamente da Matthew McConaughey, per esempio; ancora il costante e incessabile maltempo accompagnato da tuoni e fulmini; e, infine, il cane fuori dalla roulotte che abbaia unicamente all’avvicinarsi di Chris, il perdente per antonomasia.
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