Esce in Italia il 31 maggio End of Justice – Nessuno è innocente, che è valso a Denzel Washington l’ottava nomination all’Oscar per la sua performance nel ruolo del protagonista e che è stato presentato in anteprima al BIF&ST 2018.
Scritto e diretto da Dan Girloy, noto per il successo del thriller Nightcrawler del 2014 con Jake Gyllenhaal, End of Justice – Nessuno è innocente ha come altro interprete maschile Colin Farrell. Il titolo nella versione originale è Roman J. Israel, Esq., dal nome del personaggio principale.
End of Justice – Nessuno è innocente
Roman J. Israel (Denzel Washington) è un avvocato di un microscopico studio legale, composto giusto da lui ed il suo capo, William Jackson. Quest’ultimo, stimato professore, si occupa di portare le cause davanti al tribunale, mentre Roman le prepara nel buio del suo minuscolo ufficio, sommerso di carte, scartoffie, libri e post-it sparsi in ogni dove. La sua memoria è prodigiosa, tanto quanto la sua meticolosità. Le sue abilità sociali ed interpersonali, al contrario, difettano alquanto, come si comprende chiaramente quando, dopo l’infarto del boss ed unico amico, Roman è costretto a prendere il suo posto ed avventurarsi fuori dalle ristrette mura del suo studiolo.
Da lì in poi il suo guscio ovattato si incrina fino a frantumarsi completamente: lo studio chiude, lui rimane senza lavoro, e pure senza liquidazione perché la società era in bancarotta.
La persona incaricata di succedere a Jackson, Pierce (Colin Farrell), si offre di assumerlo, conoscendo la sua proverbiale bravura nel ricordare leggi e nel preparare casi. Ma la sua spregiudicatezza e la sua brama di ricchezza mal si sposano con l’idealistica visione della giustizia di Roman, che pare rimasto l’unico duro e puro in un mondo di cinismo e corruzione.
Fuori luogo, con la sua trasparenza disarmante, tanto quanto è fuori tempo, con i suoi vestiti porpora, gli occhialoni spessi e il taglio afro anni ’70, il personaggio interpretato da Denzel Washington accetta a malincuore il posto offertogli. L’inserimento in un contesto così più grande, così meno personale, così simile ad una catena di montaggio (o, meglio, una macchina per far soldi) mette Roman a dura prova, e ben presto arriva l’errore che rischia di fargli saltare la carriera e perdere il lavoro.
La reazione – inaspettata – di Roman lo trasformerà nel perfetto esemplare di avvocato opportunista e senza scrupoli da cui prima rifuggiva con orrore. Ma sarà solo la prima di una serie di “mutazioni” che l’incontro con lo spregiudicato mondo esteriore – da cui per decenni il suo boss e amico Jackson lo aveva preservato e protetto – provocano in Roman J. Israel, Esq. (come ama firmarsi. Dove “esq.” Sta per “esquire”, che indica formalmente il fatto di essere un avvocato, ma che originariamente in Inghilterra indicava chi era di rango superiore ai “gentleman” e subito inferiore ai “Knight” – cavalieri).
Un personaggio perfetto per una trama imperfetta
Il fascino di End of Justice – Nessuno è innocente è tutto nella costruzione del personaggio di Roman – che, non a caso, nella versione originale dà il titolo al film. Denzel Washington è maldestro, goffo, ingrassato quasi trenta chili per la parte, pieno di tic, con un taglio di capelli che basterebbe solo quello per farlo etichettare come disadattato. Riesce a rendere il suo Roman un savant fou, qualcuno che probabilmente potrebbe essere diagnosticato Asperger (con comportamenti simili a quelli appartenenti allo spettro autistico, ma senza compromissione a livello cognitivo e di linguaggio).
Riesce, soprattutto, a renderlo credibile, non stereotipato, non caricaturale.
Il problema che deve affrontare, però, è al di sopra e al di là di tutti i suoi sforzi: una trama piuttosto confusa, che pare voler mettere troppa carne al fuoco senza riuscire effettivamente a – appunto – focalizzare il proprio centro narrativo. In qualche modo lo script si immedesima col personaggio, è maldestro, goffo e per certi versi rigido, schematico quanto lo è Roman.
Sembra mettere pedissequamente in pratica l’assunto: cambia un contesto, cambia la persona:
- Roman è solo nel suo guscio: è idealista, certo bizzarro e a modo suo, ma fedele e coerente col suo pensiero di giustizia e col suo codice morale.
- Roman è buttato fuori dal suo guscio nel mondo reale, aggressivo e privo di remore? Diventa in poco tempo lui stesso parte del sistema, si taglia i capelli, abbandona i suoi principi, rinnega i trenta e rotti anni precedenti e, con una capacità di metamorfosi invidiabile per qualcuno fino a quel momento così a se stante ed isolato, si trasforma in uno di quelli contro cui aveva sempre lottato.
Certo, il suo cambiamento avviene dopo, concediamolo, qualche iniziale resistenza ed un tentativo di agganciarsi ad un gruppo di giovani forse idealisti come lui, ma comunque estremamente pragmatici, come le nuove generazioni sanno essere. In ogni caso è troppo repentino per non risultare forzato, nonostante gli sforzi di Washington di donare spessore e coerenza al suo personaggio. Anche la storia d’amore abbozzata con l’attivista leader del suddetto gruppo, Maya (Carmen Ejogo), sembra buttata lì giusto per non perdere l’occasione di sfruttare una possibile sotto-trama, ma non riesce ad apparire plausibile.
L’impressione generale è di avere a che fare con una sorta di novello Rapunzel, con tanto di chioma lasciata incolta, che abbia vissuto una vita segregato, chiuso nella sua torre – più che di cristallo o d’avorio, di pietra grezza – e che improvvisamente sia stato sbalzato fuori, nella vita vera. Dove per la prima volta viene a contatto con l’amore, o almeno una sorta, con il bisogno di soldi e la conseguente avidità di procurarsene sempre di più, con la tentazione e l’opportunità di agire per il proprio interesse, noncurante di leggi e conseguenze.
L’ingenuità di alcune scelte e la repentinità dei cambiamenti potrebbero funzionare – forse – in un contesto, appunto, come quello di una “favola”, per sua natura schematico e senza approfondimento psicologico dei personaggi. È completamente fuori luogo in un film dall’ambizione realistica, in cui l’attore principale è riuscito ad immedesimarsi al punto da risultare “vero” pur se il suo ruolo poteva facilmente scadere in banali tipizzazioni od eccesso di virtuosismi (quando esageri e overact, reciti troppo).
Anche il personaggio di Colin Farrell, Pierce, è, a prescindere dalla bravura o meno dell’attore, poco sviluppato a livello psicologico e di conseguenza altrettanto sofferente dei difetti della sceneggiatura.
Risultano non molto plausibili, in effetti, le sue scelte: lui, squalo dell’avvocatura, assume Roman, con tutte le sue stramberie ed il suo essere ad un passo o quasi dalla pensione, giusto perché dotato di una memoria formidabile – certo dote non propriamente irrinunciabile nell’era dei computer, degli smartphone e dei cambiamenti di legislatura veloci; non pago di averlo assunto, lo tratta come se non avesse minimamente notato il suo essere quantomeno particolare – e non è necessaria una laurea in psicologia per farlo – affidandogli casi anche importanti senza una supervisione minima, come peraltro dovrebbe essere prassi per ogni nuovo impiegato; lo rimprovera aspramente al suo inevitabile e clamoroso errore, per poi sentirsi l’istante successivo in colpa; rimane costantemente e non molto comprensibilmente affascinato dai suoi modi un po’ bruschi e genuini, come rimpiangendo quell’innocenza che lui stesso poteva aver avuto ad inizio carriera (e, presumibilmente, perso l’istante dopo, essendo lui decisamente più giovane di Roman).
Non è molto verosimile il fatto che un avvocato del suo stampo perda tutto quel tempo per star dietro ad un avvocato come Roman, che, in nome di un qualche debito di riconoscenza nei confronti del suo ormai defunto capo, Jackson, lo accolga nel suo staff e si faccia talmente ispirare dalla sua purezza d’animo da abbracciare, nel finale, la sua causa (leggi, il librone alacremente scritto in anni ed anni di minuzioso studio e raccolta di casi per denunciare un malfunzionamento della giustizia americana nei confronti degli accusati delle classi meno agiate). Né che basti un puro di cuore perché uno squalo ci ripensi ed immetta cause pro bono nel suo studio di associati, squali quanto e più di lui. In pratica, siamo di nuovo in una dimensione più favolistica che reale.
Bilancio finale di End of Justice – Nessuno è innocente
La performance di Washington rimane degna di nota, l’intero film avrebbe forse dovuto essere maggiormente ripensato. Alcune scene sono state cambiate (il film era uscito dapprima a settembre, forse per favorire le possibili nomination all’Oscar, e poi distribuito in modo più consistente a partire da dicembre), ma anche lo spostamento dell’assunzione di Roman, che inizialmente avveniva quasi a fine film, non ha aiutato a rendere più consistente la trama. Anzi, forse ha tolto anche il movente a quel cambiamento del “puro di cuore” che arriva a commettere un crimine per soldi, avendo già, a quel punto, uno stipendio con diversi zeri garantito ogni mese. Peccato, un’occasione – ed un’interpretazione da applauso – sprecata.
Ottimo