La luna sott’acqua, “docusogno” sulla tragedia del Vajont

La luna sott’acqua, docusogno sulla tragedia del Vajont di Alessandro Negrini scritto insieme allo sceneggiatore Fabrizio Bozzetti, prodotto da Incipit Film in coproduzione con Casablanca Films e uscito al cinema a novembre scorso, ha ottenuto un buon riscontro di pubblico e critica. Ne parliamo in questo articolo con il regista.

La luna sott'acqua

La luna sott’acqua

Nove ottobre 1963: una frana causa la tracimazione dell’acqua contenuta negli invasi travolgendo i paesi di Erto e Casso. Morirono oltre 1900 persone tra cui 487 bambini.

Il trailer del film

La luna sott’acqua docusogno di Alessandro Negrini

Sulla tragedia del Vajont si è scritto tanto e in passato Marco Paolini, attore e regista ha realizzato un commovente monologo teatrale. Nel 2001, in prossimità del trentennale dalla disgrazia è stato girato un film che ha riportato la vicenda con fedeltà. Il docusogno di Alessandro Negrini ( così egli stesso lo ha definito) va oltre.

Negrini, che ha girato in circa dieci anni, parla con chi vive ancora ad Erto. Tra essi, lo scrittore Mauro Corona. I protagonisti, testimoni oculari o discendenti, si esprimono spesso nella lingua locale. Negrini guarda al futuro rappresentato dai giovani che restano e alle radici, rappresentate da alcuni sloveni che in tempi remoti si insediarono nella zona.

Tra presente, passato e futuro in un flusso ininterrotto. Sullo sfondo la diga del male e un paesaggio di incanto incastonato nella durezza della montagna. Poesia e realismo secondo lo stile proprio del regista.

Alessandro Negrini
Il regista Alessandro Negrini

Tre domande al regista Alessandro Negrini

Ciao Alessandro e benvenuto su Cinemio. Vorrei anzitutto chiedere perché definisci il tuo lavoro sul Vajont “docusogno”

L’espressione “docusogno” è stata usata da una giornalista in un articolo su La luna sott’acqua, credo del Messaggero Veneto, mi è piaciuta molto perché racchiude bene ciò che La luna sott’acqua è: un film che ondeggia tra la realtà e l’onirico, tra la concretezza di una ferita gigantesca e la sensazione netta che si ha quando si arriva a Erto: un luogo sospeso. Sospeso tra la memoria e il desiderio di continuare ad esistere in una nuova possibile felicità.

Tra la durezza di una natura che è per loro quasi una concittadina, che ha vissuto come loro le stesse ferite e gli stessi scippi, ed i miti, l’inconscio collettivo che è palpabile incontrando e ascoltando gli ertani. Un film che documenta il reale e l’intangibile, il sogno collettivo di queste persone, più antico del Vajont: la sospensione della domanda – dov’è casa?

Alessandro Negrini
La luna sott'acqua

Perché hai sentito l’esigenza di realizzare un lavoro sul Vajont e perché hai usato un canovaccio inusuale che vede cioè la tragedia più come filo conduttore che come fulcro?

C’è un quadro che io amo molto: si chiama “La serva” di Diego Velazquez: in questo quadro, in primo piano, si vede una serva, mulatta, stremata dal lavoro. Si è fermata un attimo dal pulire le stoviglie, sembra assorta, sospesa. Forse sta pensando, forse sta ascoltano. Dietro di lei, si vede una finestra passavivande. E attraverso quella finestra si vede un tavolo, e seduto a quel tavolo c’è… Gesù, nella famosa scena della Cena da Emmaus. Per la prima volta, vediamo quel famoso episodio evangelico, l’apparizione di Gesù a quella cena, dal punto di vista di chi l’ha cucinata. Di chi ha pulito le stoviglie.  Questo paradigma, questo portare davanti quello che sta dietro, o sotto, è quello che mi piace fare col cinema.

Ne La luna sott’acqua gli ertani ed il loro mondo sospeso sono come la serva di Velazquez, raccontano la storia da una dimensione diversa. Come nei miei film precedenti, mi piace raccontare la Storia attraverso questi interstizi, questi specchi, come lo specchio nel film nel quale gli ertani di notte, all’aperto, vanno a riflettersi. Penso che non avrei potuto fare il film in nessun altro modo che questo.

Alessandro Negrini
La luna sott'acqua

Quale momento del documentario ti ha emozionato di più e come è stato vivere a stretto contatto con la popolazione per tanto tempo?

Bella domanda, non facile. Parto dalla seconda parte: all’inizio penso di essere stato visto come uno dei galeotti che erano stati portati dalla Serenissima a Erto, con diffidenza. Una diffidenza anche giustificata, perché da decenni i media hanno trattato il Vajont (con poche meritevoli eccezioni come Marco Paolini) ed i sopravvissuti quasi come una cartolina del dolore, da spedire una volta all’anno per poi dimenticarsene. Mentre la storia di Erto e una storia di incredibile, invisibile e tuttavia indomabile resistenza, una storia che non si è fermata quel 9 ottobre, ma che da quel 9 ottobre ha avuto inizio, in quel capitolo mai narrato che è il Post Vajont.

Ho passato tantissimo tempo con gli ertani (sono finito anche a fare i salami col sindaco ed il papà di Cristiano, il meraviglioso suonatore di fisarmonica nel film) e penso di essermi gradualmente conquistato la loro fiducia, il far capire, come diceva il fotografo Mario Dondero, che loro erano importanti per me non perché avrei dovuto filmarli, ma perché  esistono nella loro resistenza. E che la loro resistenza era servita sì a loro, ma anche a noi, per ricordarci che è possibile riconquistarsi il diritto ad esistere nella dignità.

Tutto il paese, dai due sindaci di questi anni, a tutta la popolazione, mi hanno sostenuto, e sempre ho spiegato loro che volevo fare un film che non fosse il solito film sul Vajont, ma qualcosa si traducesse anche in persone lontanissime da loro. E senza questa fiducia, non sarei riuscito a fare le scene che avete visto, dal sindaco seduto dentro a una casa diroccata dove piove dentro, con lui bagnato fradicio, alle scene più oniriche e legare al realismo magico del film.

I momenti più emozionanti: nelle riprese, forse la prima volta che ho filmato la fiaccolata del 9 ottobre che parte da Erto per arrivare alla diga. Nel film, quando lo rivedo, mi emoziono sempre nel vedere i volti delle persone che ho frequentato, con i quali ho bevuto, discusso, riso prima e durante le riprese, e che in questi anni ci hanno lasciato. In particolare voglio ricordare Guido Sain, che ci lasciati poco prima dell’uscita del film, il nostro meraviglioso ascoltatore della musica del lago. Ma voglio credere che anche loro sono rimasti sospesi, come il loro stesso paese, inagguantabili tra la realtà e il sogno.

Alessandro Negrini

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