Quanto può far male essere abbandonati dalla persona che si ama? Ne parla Andrea Cramarossa nel suo cortometraggio L’acqua di Marco che ci racconta in questa intervista.
Andrea Cramarossa si diploma attore nel 2000 presso l’Accademia Internazionale dell’Attore di Roma e nel 2002 presso la Scuola Internazionale dell’Attore Comico di Reggio Emilia. Nel 2003 fonda il Teatro delle Bambole, gruppo di ricerca di una nuova metodologia di approccio all’arte drammatica. Ha studiato cinema con Alessandro Piva, Bruno Fornara, Domenico Procacci, Giovanni Veronesi, Alessandro Haber e come regista ha realizzato i video d’arte Cuoio e Sintesid’amoreuno. Nel 2009 realizza il suo primo cortometraggio, Un dì all’azzurro spazio. L’acqua di Marco è il suo ultimo cortometraggio.
L’acqua di Marco
Marco è stato abbandonato dalla sua ragazza che gli ha dichiarato di non amarlo più. La sua reazione è devastante, per sè e per lei…
Raccontare la violenza sulle donne non è facile. Farlo in circa 10 minuti e soprattutto dal punto di vista del violentatore ancora di più. Ci riesce in maniera molto efficace Andrea Cramarossa in questo suo cortomentraggio L’acqua di Marco nel quale in modo assolutamente neutrale e senza giustificazioni, si mette nei panni di chi è abbandonato per amore. Quanto può essere devastante la frase ‘non ti amo più’? Quanto può minare una mente già debole? Queste sono le domande che il regista si pone con il suo cortometraggio. Le risposte non sono belle, le evidenze sono sotto gli occhi di tutti ma questa immedesimazione è molto efficace ed il risultato è un cortometraggio crudo ed intenso, assolutamente senza filtri.
Le domande al regista
Ciao Andrea, benvenuto su cinemio. Parliamo della genesi de ‘L’acqua di Marco’. Il corto fa parte di una trilogia. Vuoi raccontarcela in dettaglio? E nello specifico, dato che soggetto e sceneggiatura sono tuoi, come sei arrivato alla storia del corto?
Sì, si tratta della Trilogia dello specchio, cominciata tre anni fa col cortometraggio Un dì all’azzurro spazio. Lo specchio, in senso ampio, è un elemento col quale mi piace lavorare, mi permette di andare in profondità nelle cose che faccio, nell’arte come nella vita di tutti i giorni. Non amo restare in superficie e far sì che l’arte sia solo “intrattenimento”; questa modalità mi annoia molto e non mi stimola. Mi piace indagare, guardare dentro, nella fisiologia dei personaggi, per comprendere che cosa fanno le parole con quei corpi. Questa trilogia affronta, come modalità, questo genere di ricerca. Nello specifico, L’Acqua di Marco, tratta il tema dell’abbandono, del distacco, dello strappo. Essere abbandonati è come perdere un arto, un organo, è come se qualcosa o qualcuno di strappasse una parte del corpo.
Oltre ad essere regista sei anche attore e hai scelto attori di teatro come protagonisti. Come hai lavorato con loro per la costruzione dei personaggi?
Ho lavorato benissimo. Gli attori del corto sono stati molto disponibili e generosi. Lavorare con loro è stato un piacere e non ha importanza che siano di teatro perchè a me interessa la verità delle cose e raggiungerla, per quanto alle volte sia doloroso, và oltre l’essere “specializzati” nella recitazione tetrale piuttosto che in quella cinematografica.
Com’è andata la fase di preparazione del corto? C’è qualche aneddoto che vuoi raccontarci?
Bè… non ci sono aneddoti da raccontare. Il mio è un lavoro semplice e lineare che non dà spazio ai pensieri ma li lascia fluire. Si è talmente immersi nel lavoro che non c’è spazio per altro.
La scena centrale de ‘L’acqua di Marco’ è molto particolare. Vuoi spiegarla ai nostri lettori?
E’ una allegoria. E’ l’allegoria della finzione, specie nell’amore. Ritengo che l’amore sia un sentimento che eleva l’uomo, lo porta molto in alto, troppo in alto, per questo, spesso, viene imbrattato di inutilità caratteriale e lo si sciupa. Spesso lo facciamo perchè questo ci fa sentire “umani”, ci dà quel senso di umanità ma non ci rendiamo conto che stiamo facendo gli umani più che esserlo.
Il tuo corto ha da poco partecipato al Levante International Film Festival. Qual è stato il riscontro di pubblico e critica?
E’ piaciuto molto, l’applauso finale del pubblico e le domande calorose e i complimenti sinceri lo hanno dimostrato. Di critici non ce n’erano, peggio per loro!
Ed ora uno sguardo al futuro: ‘L’acqua di Marco’ è il secondo della trilogia. A che punto è il terzo? Hai anche altri progetti nel cassetto?
In una situazione generale di sconforto, andare avanti, diventa davvera un’opera improba. Per il terzo ancora non ci sto pensando anche se ho il soggetto e non so esattamente se e quando lo potrò realizzare, forse tra altri tre anni. Invece mi sto concetrando su progetti cinematografici più ampi, veri e propri film per intenderci e in particolare mi piacerebbe approfondire i meccanismi legati all’impossibilità dell’amore di realizzarsi. Spero di poter trovare un produttore che si appssioni alla tematica o una qualsiasi forma per produrlo. Nell’immediato futuro ci sarà la mia partecipazione come tutor di recitazione nel progetto Sinapsi che prevede una innovativa formula per produrre un film dal basso, con risorse minime.
Ringrazio Andrea Cramarossa per la disponibilità dandogli appuntamento su questa rubrica il occasione del suo prossimo progetto.