Un film che va oltre le parole. Una pellicola “all’orientale”, fatta di silenzi, di sguardi d’intesa e di gesti mai equivoci. Fuori concorso a Venezia e in concorso a Toronto, “Gorbaciof”, l’ultimo lavoro di Stefano Incerti – lungo, laborioso e realizzato solo grazie alla spinta della passione per questo mestiere – è un film intenso che, nonostante la sua drammaticità, colpisce per la sua passionalità.
La storia è quella di Marino Pacileo, soprannominato Gorbaciof per la voglia sulla fronte, contabile del carcere di Poggioreale con il vizio del gioco. Per pagarsi le partite fa la cresta sugli incassi del carcere e gioca nel retrobottega di un ristorante cinese, visto che anche il proprietario è un giocatore; nel locale lavora Lila, figlia del ristoratore, di cui Gorbaciof si innamora, ricambiato. Per coprire una perdita del padre di Lila, Gorbaciof accumula a sua volta diversi debiti, che lo porteranno verso una parabola discendente, senza ritorno.
Tutto il film è costruito sui silenzi, sugli sguardi, con i dialoghi ridotti davvero al minimo. Al centro la piccola criminalità napoletana, quel sottobosco paludoso che da troppo tempo non fa notizia; una palude che però non ostacola il nascere di un amore, un forte sentimento tra due persone così lontane ma allo stesso tempo accomunate dalla stessa sorte; due persone che si amano senza conoscere l’uno la lingua dell’altra; due persone che sognano un riscatto, una svolta, una nuova vita.
Toni Servillo, come sempre, offre al pubblico un’interpretazione magistrale. Fa vivere un personaggio complesso, fatto di mille sfaccettature, senza farlo parlare: poche parole, solo quelle strettamente necessarie; per il resto, Gorbaciof vive la sua vita in silenzio e con forza, combattendo se necessario e trovando anche il coraggio di innamorarsi. Perché lui è una tigre, una tigre tra le scimmie.