Recensione: “Il Sangue Verde” di Andrea Segre

Caro Gabriele Salvatores, dato che ti sei scagliato recentemente contro la mancanza di “emozioni” che sarebbe tipica del nuovo cinema italiano, consigliamo anche a te di vedere questo documentario. Del “Sangue Verde” avevamo già accennato nei giorni scorsi, e mi sembra giusto concludere l’argomento commentandolo più nel dettaglio.

Cominciamo con l’autore, Andrea Segre: giovane documentarista che già si era fatto conoscere per “Come un uomo sulla terra”, riguardante le disumane persecuzioni politiche in atto nella Libia di Gheddafi. E in un certo senso, “Il Sangue Verde” ne costituisce una sorta di seguito ideale: perché mostra cosa fanno, ed in quali condizioni si sono trovati, quegli uomini fuggiti dall’Africa alla ricerca di un luogo dove poter vivere.

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Purtroppo per loro, in Italia, non hanno avuto una sorte molto migliore. Questo documentario racconta, attraverso le parole di alcuni di loro e con pochissimi commenti esterni, la discesa in un inferno chiamato Rosarno e la nascita – nell’Italia del 2010 – di una moderna forma di schiavitù. Dietro questa schiavitù non c’è nessun disegno malvagio, ma solo la crisi economica mondiale che ha frenato la produzione industriale anche nel mitico Nord-Est italiano: per cui molti migranti africani, rimasti disoccupati, sono scesi in Calabria per lavorare nell’agricoltura. Ritrovandosi alla mercè dei caporali, in un far west (o meglio, un “far south”) nel quale non c’è nessuno che faccia rispettare la legge. E dove i diritti umani semplicemente non esistono.

Infatti non ci sono davvero parole per descrivere in quale sistema di lavoro si siano trovati questi individui. Anzi, l’aspetto che colpisce di più – a mio parere – è la secca precisione con la quale gli intervistati stessi descrivono non tanto la loro personale condizione, quanto lo scenario sociale ed economico nel quale quasi tutti gli africani presenti in Italia si trovano oggi. Non c’è la minima retorica in quello che raccontano, né la minima strumentalizzazione, ed è questo che li differenzia dalla boria di tanti giornalisti e scrittori di casa nostra.

Ed è questo che ci consente di capire le motivazioni profonde – che sono economiche, ancora prima che politiche o sociali – di quanto è successo, senza per forza dover cercare buoni e cattivi (anche se di cattivi, purtroppo, in questa storia ve ne sono eccome). Queste persone sono sospese nel vuoto, per motivi opposti non possono più stare nel paese d’origine e nemmeno in quello di adozione. Nei loro confronti c’è una persecuzione silenziosa che non ricorre alle camere a gas, ma vorrebbe che queste vittime  si auto-eliminassero; ed anche questo è avvenuto, perché ci sono stati diversi casi di suicidi fra chi non poteva più sopportare queste sofferenze senza fine.

Forse resta un velo di mistero sulla domanda più banale che (più o meno in buona fede) si potrebbe fare, ovvero: ma se in Italia stanno così male, perché non se ne tornano nel loro paese? Ma questo esula dal tema del documentario, è proprio un altro discorso, che però approfondiremo presto dopo avere visto “Come un uomo sulla terra”. Nel “Sangue Verde” gli intervistati dedicano solo pochi e vaghi accenni alle motivazioni per cui nonostante tutto hanno deciso di restare. Per qualcuno è un fatto di orgoglio, perché non vogliono ammettere (specie davanti ai parenti) di avere perso la sfida di integrarsi nel nostro paese; per altri è un fatto di necessità, perché hanno avuto dei problemi talmente gravi nel paese di origine che sono praticamente in esilio. Ma non è detto che questi “problemi” garantiscano loro lo status di rifugiati.

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